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empatìa s. f.  [dal greco: en-pathos, sentire dentro]

Bulli Stop – Christmas Show. Il dietro le quinte di un evento che è prima di tutto un incontro: quello tra Giovanna e Luca. Una pedagogista che ancora si commuove di fronte al dolore degli altri, e un artista che non ha mai nascosto il suo.

«Ho seguito sempre Luca nelle sue vicissitudini familiari» mi racconta Giovanna Pini quando le chiedo perché, umanamente e professionalmente, ha voluto proprio Luca Tommassini accanto a lei in questa impresa: partendo dalla realtà del Centro Nazionale Contro il Bullismo, di cui è Presidente, ecco l’idea di mettere in scena uno show imponente che riunisce i grandi artisti attorno alla tematica degli abusi e del bullismo. «Spesso Luca mi ha parlato del bullismo che ha subito sin da piccolo, e quindi ho pensato che fosse una delle persone più giuste per seguire la direzione artistica dell’evento. Ci siamo uniti in questo Christmas Show e ci siamo dati forza a vicenda». Dal canto suo, Luca Tommassini coltivava da tempo l’idea di uno show di Natale che promuovesse l’impegno sociale e il suo modo di far pace con la vita, proprio attraverso l’arte: «Volevo creare una sorta di contenitore pieno di doni che potessero smuovere qualcosa di importante, oltre le cose materiali. Una scatola simbolica per offrire sostegno a chi ha bisogno di strumenti per lottare. Ogni volta che nella mia vita mi sono avvicinato a una ONLUS, a qualcosa di importante come Pangea o Bulli Stop, mi sono sempre preso del tempo per studiare le persone che ci lavoravano. E per assicurarmi che potesse diventare un vero generatore di bene».

Luca Tommassini rivista deluge Roma

Uno show che debutta durante il periodo Natalizio con un cast di grandi artisti: quanto è stata complessa l’organizzazione dell’evento?

Tanto. Ed è stata veramente una follia, perché abbiamo fatto tutto da soli, senza il sostegno di nessuna agenzia o casa di produzione discografica. Mi sono confrontato con un mercato discografico molto complicato, perché dopo anni di chiusura per il Covid i cantanti sono tornati a fare i loro concerti a pieno ritmo, specialmente sotto Natale. Quindi questa decisione “infelice” di scegliere il Christmas Show, il 19 dicembre, ha creato la vera difficoltà del casting. Achille Lauro ha dovuto cambiare degli impegni ed è arrivato quasi alla fine, tanti cantanti erano incastrati o lontani ma hanno voluto partecipare mandando dei video di sostegno, come Eros Ramazzotti e Laura Pausini.

Sei direttore artistico, regista e coreografo dello spettacolo. Ma soprattutto hai voluto scriverlo.

Esatto, ed è diverso dal chiedere agli ospiti di portare solo un loro contributo. Io volevo scriverlo insieme a Paola Papa, che è una mia amica ma soprattutto una grande professionista con cui ho lavorato spesso in passato. Abbiamo scritto i testi insieme agli artisti e a Renzo Rubino, che ha fatto la colonna sonora musicando quasi tutti gli interventi. Il format che avevo in testa doveva essere creato da casa, lavorando tutti a distanza e facendo le prove senza incontrarci, fino a riunirci una volta sola in occasione del grande evento. Così gli artisti si sono ritrovati sul palco insieme ad altri artisti, magari accompagnati da un danzatore o dalla voce di un’attrice, con la musica di Renzo e con il video di Eros, con la figlia di Bocelli, Virginia, che leggeva una lettera al padre. È stata un’esperienza forte anche per loro, ed è stato bellissimo.

Dottoressa Pini, al di là del Christmas Show, Bulli Stop è una realtà che esiste da quindici anni: come è nata?

Chiaramente noi già ci occupavamo di bullismo, ma possiamo dire che il Centro Nazionale è frutto di una forte aggregazione di giovani che si sono rivolti a me: quando accadevano fatti di bullismo, molti di loro dicevano di non sentirsi rappresentati da quella gioventù. Volevano creare una realtà che riunisse degli individui sani e giusti, che combattessero insieme.

Lei è pedagogista, autrice di molti testi sul bullismo, presidente di Bulli Stop, docente all’Università di Roma Tre, ha ideato negli anni Ottanta la teoria del Teatro d’AnimAzione Pedagogico ed è stata premiata da Mattarella per l’impegno sociale con la Medaglia Presidenziale. Come si concilia l’approccio scientifico del suo mestiere ad un Christmas Show?

La mia teoria del Teatro d’AnimAzione Pedagogico nasce proprio per combattere il bullismo, quindi le prime ricerche cercavano riscontro nelle percentuali: quanto effettivamente poteva diminuire il bullismo in un gruppo di ragazzi? Ho sempre usato l’arte ed i laboratori per creare aggregazione, per aumentare l’autostima della vittima e per placare la perfidia del bullo. Ecco perché il Christmas Show porta in sé il segno del Teatro di AnimAzione: mettere in azione l’anima per educare e formare, è anche quello che è successo nello spettacolo. Ognuno ha portato la sua arte per combattere una piaga.

Luca, credi che raccontarsi in modo così intimo, e insieme ad altri artisti, possa offrire davvero un contributo concreto?

L’incontro con gli artisti è stato fondamentale, perché io ho quelle corde accese dentro e quindi so con chi parlo e di cosa parlo. Conosco tante persone nello spettacolo con cui abbiamo elaborato delle piccole e importanti confessioni. Perché sono così importanti? Perché io da piccolo non le ho avute. Non è che accendevo la TV o leggevo da qualche parte di altre persone che subissero violenza o abusi. Ci si vergognava, ci si vergognava tanto. Si parlava sempre del vincitore, di quello forte, e mai del debole. Invece queste sono tutte persone che ce l’hanno fatta, sono esempi positivi. Io e Iago siamo molto amici, gli ho fatto da strumento in questo percorso, abbiamo fatto due cene dedicate ad un trauma che sentiva di voler condividere ma che non aveva mai confessato nemmeno ai suoi genitori. Una violenza subita a 10 anni. In seguito, studiando e informandosi, lui ha trovato gli strumenti per costruirsi come artista e scultore, e oggi può dire a se stesso: «Io lo devo a quella violenza lì». Questo però ci ha ricordato che noi siamo i fortunati, quelli a cui è andata bene. Perché non tutti riescono a trarre vantaggio dal dolore.

In molti programmi si ricorre al famoso “monologo della vittima” senza mai superare l’impasse della retorica. Qui invece ci sono degli artisti realizzati e con una vita ambita da molti, che però raccontano com’erano prima di riscattarsi.

Bravissima, si tratta in qualche modo di riscatto. E la loro presenza è stata un valore aggiunto, perché in platea c’erano vittime di bullismo. Vedere Alessia Marcuzzi che parla delle sue gambe e fa una sorta di coming out, per me che sono vittima di bullismo e magari sto subendo anche del body shaming, ha un significato importante: finisco a domandarmi cos’è davvero l’imperfezione, qual è il metro di misura, e se conta davvero qualcosa.

Il monologo di Alessia Marcuzzi ci ricorda che spesso ciò che per noi è una fonte di insicurezza, per gli altri è un dettaglio irrilevante.

È questo il problema che cerchiamo sempre di spiegare ai nostri ragazzi: a volte uno tiene la propria insicurezza all’interno, e invece basterebbe parlarne per rendersi conto che ci sono altre persone che stanno affrontando la stessa problematica. Il silenzio è la morte di tutto. Il silenzio alimenta il bullismo, mentre la parola lo uccide. Spesso ci sono ragazzi che assistono ad atti di bullismo ma non lo dicono, perché le famiglie consigliano «fatti gli affari tuoi, che ti importa se non capita a te». Lo show voleva dare anche questo messaggio: di ascoltare i ragazzi e di non ostacolarli nella denuncia, anzi, di condurli in quella direzione. A mancare sono l’altruismo e l’empatia, entrambe necessarie, perché invece nel bullo non si attiva la cellula empatica. Come confermano gli studi scientifici, non attivandosi quella cellula, il bullo non capisce che sta facendo del male. O lo capisce, ma non gli interessa.

Luca, tu porti ancora dentro i segni dell’indifferenza degli adulti: cos’è che ti ha ferito di più?

Io questo show l’ho dedicato a mio padre, che è stato il primo bullo che ho conosciuto in vita mia e anche il primo a girarsi dall’altra parte. Lui era meccanico, aveva l’officina sotto casa e io l’ho visto con i miei occhi girarsi dall’altra parte, quando qualcuno mi insultava e mi picchiava. Questa cosa qui ce l’ho nel sangue, ce l’ho nelle ossa. Quel dolore fa parte della struttura su cui siamo costruiti e ci dobbiamo far pace, perché si riaccende e riprende vita facilmente. Anche quando ad esempio, poco tempo fa, ho trovato un post-it sul mio citofono: «Vattene frocio». Un biglietto che mi ha riportato immediatamente in quella dimensione. Io all’improvviso posso tornare ad essere quel bambino lì, indifeso e solo, che si vergognava e non lo diceva a mamma per non farla soffrire. Così mi sono inventato anche io gli strumenti per combattere. Mamma l’altra sera c’era, e questo mi ha reso molto orgoglioso, perché lei mi diceva sempre: «Luca, vai avanti e non guardarti indietro». Lei spesso si faceva picchiare da papà per lasciarmi libero di andare alla scuola di ballo. È un continuo dare, è come se avessi sempre un debito con la vita.

Capisco quando dici che certe esperienze ti rimangono nelle ossa, anche se poi balli a Hollywood con Janet Jackson. C’è una vera cura all’umiliazione subita?

Io penso che ti rimanga addosso per sempre. Ancora oggi mi sorprendo quando all’improvviso sento il mio nome, perché mio padre non pronunciava mai il mio nome. Si vergognava di me, lo imbarazzavo. Durante lo show abbiamo visto sul palco il video di Laura Pausini, e quando ha detto: «Questo l’ho fatto anche per il mio amico Luca», io mi sono girato pensando “Oddio, sono io”.

Lo step più difficile per un genitore è riconoscere nel proprio figlio una vittima di bullismo oppure un bullo. Questo evento era destinato ai genitori o ai figli?

Noi abbiamo pensato a tutti. Come prima cosa a stimolare nei genitori una forte riflessione sulla tematica, per far capire loro che non bisogna vergognarsi se abbiamo un figlio bullo e neanche se abbiamo un figlio vittima, che si possono rivolgere a noi anche solo per avere dei consigli. Molti artisti e personaggi dello spettacolo, andando in scena e raccontando la loro esperienza, hanno trasmesso di esserci riusciti: si può andare avanti. Il tutto ha assunto anche la dimensione dello show, e i personaggi si sono sentiti più protetti sapendo che c’era la direzione artistica di Luca.

Nel corso degli anni ha notato un cambiamento? C’è stato un atto di fiducia da parte delle persone nei confronti del Centro e di una tematica considerata tabù?

I primi anni era difficile che si rivolgessero a noi, c’era ancora molta omertà e chiusura da parte delle vittime. Per questo abbiamo spinto tanto per far conoscere il Centro anche tramite le vittime stesse, che una volta entrate hanno conquistato un’autostima maggiore, offrendo le loro testimonianze. Nel tempo le persone hanno visto che era una realtà vera e concreta: noi offriamo assistenza legale, pedagogica e psicologica gratuita, e infatti i genitori non ci credevano. È iniziato un passaparola importante quando si è compreso che nel Centro c’era anche molta riservatezza, che non obblighiamo nessuno a denunciare subito. È il singolo individuo a doversi sentire disponibile a procedere.

Luca, pensi che questo genere di aiuto avrebbe cambiato il corso degli eventi della tua vita?

Certo, perché spesso i problemi sono proprio di natura economica. Quando ero piccolo io e mia mamma non potevamo andare via perché non avevamo i soldi per sopravvivere. Invece Bulli Stop si fa carico di tutto l’aspetto legale e di quello che c’è attorno al disagio delle vittime: ciò che scaturisce da una denuncia, il supporto psicologico ed emotivo.

Ma la natura sociale e antropologica dei bulli e delle vittime è cambiata davvero?

Ci sono sempre state sia le vittime che i bulli, nella stessa identica misura al Nord, al Centro e al Sud. Quello che è cambiato davvero, è che prima non si parlava del bullismo, perché forse non esisteva in una forma così violenta, con tante vittime che arrivavano al suicidio. Magari se qualcuno si toglieva la vita, non si andavano ad indagare i motivi fino in fondo.

Un contributo di forte impatto è stato quello di Alessandro Preziosi, che ha ammesso di essere un ex bullo.

Certo, come lo ha detto anche Alessandro Gassman: «ero un ex bullo». Credo che quando c’è la consapevolezza, quando si è già arrivati come artisti e si è trovato un equilibrio interiore, non ci sia la problematica di ammettere di essere stati dei bulli. Quando noi andiamo a fare i dibattiti gratuiti nelle scuole, ci sono molti ragazzi che alzano la mano e ammettono di essere dei bulli. Questa per me è normalità, ma in uno show l’intervento di Alessandro Preziosi ha una portata diversa. Equivale a salire su un palco e dire: l’ho fatto, e oggi capisco che era sbagliato.

In mezzo a tanto intrattenimento buonista, in che termini questo show potrà fare la differenza?

Si tratta di una realtà educativa e culturale, e se riuscissimo ad andare in TV (cosa che speriamo succeda l’anno prossimo) potremmo parlarne su scala ancora più ampia. Alla fine, se ci pensiamo bene, nessuno ha mai fatto uno spettacolo contro il bullismo. Ci sono stati degli interventi e dei piccoli numeri televisivi, ma mai nessuno ha approfondito la tematica in questi termini. Ci sono cose molto importanti che noi abbiamo detto durante lo show, e che io stesso ho scoperto grazie a Bulli Stop. Per esempio che pochi si prendono cura degli ex bulli, pochi vanno a lavorare su quelle personalità. Invece il Centro è pieno di ex bulli che adesso aiutano le vittime, e probabilmente sono tra quelli che hanno più forza e più voglia di cambiare le cose. Giovanna Pini va nelle scuole a parlare a tutti gli studenti, non solo alle vittime. L’educazione e le azioni vanno moltiplicate anche alla luce della piaga di questa era, cioè il cyberbullismo. Non facciamo nemmeno in tempo a raccogliere tutte le denunce per raccontarlo, sono talmente tante che bisogna fare qualcosa di altrettanto potente per contrastare l’ondata del male.

Giovanna, lei si commuove ancora di fronte a una storia di bullismo?

Purtroppo io mi commuovo tutti giorni, specialmente quando leggo sui giornali che si è ucciso un ragazzo a causa del bullismo. Mi vengono i sensi di colpa, mi chiedo cosa sarebbe cambiato se lo avessimo incontrato, se fossimo andati anche nella sua scuola. C’è sempre una sofferenza immensa, non solo da parte mia ma di tutto lo staff. Noi soffriamo con loro. Quando vediamo un video di una ragazza con disabilità pestata di botte in un parco, e poi lei si rivolge a noi… come facciamo a non piangere? Siamo in un Centro in cui l’empatia è l’elemento più forte, e perfino tra di noi ci sono ex vittime di bullismo.

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