Il tempo non puo’ scalfire
(Robert De Niro, C’era una volta in America)
A portfolio by Fabrizio Cestari during 79. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Testo by Chiara Del Zanno.
A portfolio by Fabrizio Cestari during 79. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Testo by Chiara Del Zanno.
1972, lo scatto è in bianco e nero. Carla indossa dei sandali estivi, un foulard attorno al collo, occhiali da sole impigliati nell’acconciatura cotonata, come un fermaglio. Viene immortalata nel gesto di scendere la scalinata mentre Sergio, il marito, le cinge le spalle. Lui è in t-shirt, cinta di cuoio e golfino in mano. Alle loro spalle, i tavolini di una delle location italiane più famose al mondo: l’Hotel Excelsior, al Lido di Venezia. La sequenza di immagini, oggi custodita nell’archivio monumentale Camera Photo, raccoglie appena una manciata di momenti. Eppure, d’un tratto, ecco che Sergio Leone e Carla Rinaldi si mettono in posa per il fotografo e appaiono incredibilmente mortali, raggiungibili, vicini alla gente. Anche i divi abbassano la guardia. A vederli così, potrebbe sembrare il ricordo di una vacanza tra sposi e invece era l’anno della 33esima edizione della Mostra di Venezia, quello in cui Charlie Chaplin e Billy Wilder vincevano il Leone d’oro alla carriera, la seconda contestatissima edizione diretta da Gian Luigi Rondi. È nel camerino di Deborah che Noodles pronuncia una delle frasi che hanno marchiato per sempre il nostro immaginario: «Il tempo non può scalfire». Sergio Leone la scrive per Robert De Niro e non è un caso che gliela faccia dire di fronte alla locandina di Antonio e Cleopatra. Si affida al maestro dei giochi del destino, Shakespeare, per custodire in una scena l’intero senso del film e del suo rapporto con il tempo. Che poi, in fondo, è pure il nostro. È difficile dire se oggi siamo ancora dei romantici, se crediamo ancora all’incanto del grande show del cinema e della sua industria. Il tempo non può scalfire oppure perfino il tempo è stato scalfito dalle epoche? Dall’invasione del futuro, dalla nostalgia per il passato? Se oggi guardiamo la foto di Sergio e Carla a Venezia, come una coppia qualunque all’ingresso dell’Excelsior, tutto sembra fermo lì. Ma perché?
A voler essere romantici, allora, forse non è un caso neanche l’anagramma di questo numero di Déluge: gli Idol e il Lido. Come se il Lido fosse destinato ad accogliere e fotografare la storia dei grandi miti, come se la sua missione fosse già nel nome. Nell’edizione che su carta promette d’essere indimenticabile, quella della vera rinascita post Covid mentre il Covid ancora incombe, tuttavia viene da chiedersi se siano gli idoli a mancare o il Lido ad essere cambiato. Di cos’è che abbiamo davvero nostalgia?
1967: Claudia Cardinale e Liz Taylor chiacchierano di fronte a un drink, entrambe vestite di bianco, durante un evento veneziano. Nello stesso anno Sean Connery sfreccia sul canale al timone di un motoscafo: è come vedere James Bond sbarcare al Lido. Nel frattempo Alberto Sordi si lascia assalire dal pubblico di fronte alle transenne e ride di gusto, in faccia ai fotografi. 1983: Gregory Peck, ormai brizzolato ma ancora bellissimo, improvvisa un balletto tra la gente.
1996: Vittorio Gassman posa per la stampa insieme a De Niro, Hoffman e Bacon (e beato chi c’era). 1965: quella è davvero Anna Karina che abbraccia Dino De Laurentiis durante una conferenza, e quest’altro, nel 1951, è davvero Winston Churchill che abbozza un sorriso sopra il papillon impeccabile. È il ’57 quando Maria Callas, in un gesto inaspettato di fronte al mondo, accarezza il viso di un marinaio tra la folla di fan: lui rimane impietrito, mentre la foto rimane nella storia. Nella stessa edizione Barbara Valentin viene paparazzata in bikini a gambe all’aria sul prato dell’Excelsior, mentre posa scomposta per un servizio fotografico: è uno squarcio dietro le quinte del divismo.
2 settembre 1958, due aerei disegnano nel cielo due enormi lettere di vapore: “BB”. Scortata dalla polizia fino in sala, Brigitte Bardot arriva a presentare La ragazza del peccato di Claude Autant-Lara. Il Lido esplode e lei dà spettacolo per il Lido. È puro show, immortalato da due foto leggendarie: quella rubata nell’ascensore dell’Excelsior, mentre Brigitte bacia appassionatamente Sacha Distel, e quella che verrà scattata subito dopo, sul prato dell’hotel, quando la donna che fa impazzire un’epoca ribalta le regole del servizio fotografico ufficiale e inizia a rotolarsi nell’erba. Ammiccando gioca con il dito, sorride e lo tiene sospeso tra le labbra e la bocca.
«Questo Festival verrà ricordato per aver ospitato uno dei più straordinari momenti di fascino collettivo della storia del cinema», scriverà Joe Van Cottom, fondatore di Ciné-Revue. A cogliere davvero la follia collettiva dell’evento sarà un tale chiamato dai colleghi “l’italiano pazzo”, il paparazzo Mario De Biasi. L’idea geniale è quella di passare dall’altra parte della barricata: «Mentre i suoi colleghi quasi si calpestavano per immortalarla – racconta Mauro Zanon – lui ebbe l’intuizione di fare il giro e mettersi alle spalle della Bardot. Di fronte al suo obiettivo aveva così la diva e la ressa dei fotografi impazziti che la divoravano con le loro macchine. […] De Biasi, da quell’angolo, fotografò il mito, un mondo, un’epoca». La memoria storica è il ritratto dei paparazzi che inseguono il fenomeno Bardot, non Brigitte in sé.
Idol: l’oggetto di un’ammirazione fanatica e devota, in quanto ritenuto più vicino al divino che al terreno. Dal greco, simulacro. Ma è quando l’idolo lascia l’Olimpio e fa un salto giù, tra i comuni mortali, che rende possibile la magia. Che regala l’illusione d’essere accessibile, anche solo per un giorno. Che si lascia perfino toccare dal pubblico, come Alberto Sordi, o che concede il lusso di una carezza, come quella di Maria Callas al suo marinaio dietro le transenne del Red Carpet. Capita di rado e l’apparizione è fugace… purché sia spettacolare.
Penso a quando la troupe di C’era una volta in America (1984) invase la Sala degli Stucchi dell’Hotel Excelsior per girare la scena della cena tra Robert De Niro ed Elizabeth McGovern. «Volevi un ristorante sul mare e l’ho fatto aprire per te». Noodles e Deborah balleranno soli nella sala vuota, tra gli archi e le colonne del 1914 in stile Luigi XVI, fino a ritrovarsi sdraiati sulla spiaggia dell’Hotel. L’intera sequenza, la discesa degli idoli in una location che con la Mostra del Cinema si popola d’un formicaio di addetti ai lavori, oggi resta imprescindibile da una delle battute indimenticabili della storia del cinema. Dal volto di Robert De Niro e, per noi, anche dalla voce di Ferruccio Amendola: «Nessuno t’amerà mai come t’ho amato io. C’erano dei momenti disperati che non ne potevo più, e allora pensavo a te e mi dicevo: Deborah esiste, è là fuori, esiste. E con quello superavo tutto». È il trionfo del grande cinema, quello irripetibile.
Cos’è, dunque, ad essere cambiato davvero? Possibile che il tempo abbia scalfito la magia, che i miti del cinema siano scesi definitivamente sulla terra dei mortali? Che questa nostalgia nasca dall’impressione di averli sempre a portata di mano sui social, non più paparazzati in una corsa allo scatto del secolo, ma spontaneamente esposti in foto quotidiane. Nelle loro case, nei loro pigiami, accanto ai loro affetti. Così-costantemente-umani. Come se fosse ogni giorno Carnevale, a prescindere dalla fabbrica dei sogni.
Qui si fa la storia, canta ‘uno’ che al cinema italiano ha prestato diverse canzoni. Ogni volta che intervisto un nuovo volto nel momento in cui approda sul Red Carpet di Venezia, scopro che quell’emozione è sempre lì. L’idea che questo sia il luogo dove si fa la storia, quello che un’attrice o un regista iniziano a sognare dal momento in cui decidono che, costi quel che costi, il cinema sarà il loro mestiere.
Questa per molti sarà “la prima Venezia”, magari la decima. Forse l’unica. Di certo sarà il momento che aspettano da sempre: arrivare dove gli idoli sono sempre atterrati e dove la gente li consacra. E magari chiedersi, proprio come in quel dialogo tra Noodles e Deborah, che scende di casa avvolta nel suo cappotto bianco: «Hai aspettato molto?», «Tutta la vita».